Abbiamo accennato alle responsabilità dell’informazione (quasi: dell’insistenza dei paparazzi) che in in qualche circostanza oltre a documentare le crisi di alcune musiciste le ha probabilmente esacerbate: è il caso di quanto accaduto con la tutela legale ultradecennale di Britney Spears, che è lecito supporre sia stata assegnata per la prima volta per “errore”, da una giudice troppo zelante, dopo alcuni scatti rubati da fotografi senza scrupoli.
Per certi versi è analoga la vicenda della rappresentazione di Courtney Love (e di Yoko Ono prima di lei), letteralmente tormentata dalla stampa a ridosso del suicidio del marito Kurt Cobain: per decenni la rocker statunitense è stata raccontata in termini meno che lusinghieri perché i suoi rapporti con i media erano tesi. Invece di ricevere comprensione, l’attrice-cantante è stata demonizzata e i risultati sono ancora oggi sotto gli occhi di tutti.
L’esempio italiano, da copiare per tutti
Questi due casi non hanno solo danneggiato le carriere delle due artiste, riducendole a caricature di donne disturbate mentalmente e incapaci di prendere decisioni razionali. La stampa di lingua inglese, più in generale, ha cercato di replicare quel modello accanendosi su altri personaggi, perché storie di questo tenore generavano profitti.
Quanto accaduto alle due americane potrebbe ripetersi anche qui? Al netto di quegli articoli che scimmiottano le testate d’oltreoceano, crediamo di noi: prima di tutto per la poderosa legge sulla privacy che ci protegge, e poi per la sussistenza del “Testo Unico dei doveri del giornalista”, che va rispettato in fase di stesura degli articoli – pena sanzioni e anche espulsione dall’Ordine professionale, nei casi più gravi.
Una parte sostanziosa di questa legge deontologica è dedicata a “cosa non fare”: spettacolarizzazione della violenza, ricorso agli stereotipi di genere, narrazioni distorte: quante donne, artiste o no, si potrebbero avvantaggiare di un approccio di questo tipo?